Massimo Gramellini, 20 giugno 2020
Il giorno stesso in cui tornò a casa senza le gambe, Alex Zanardi volle sfidare suo nipote a nascondino. Prima si infilò nel caminetto. Poi avvicinò due sedie e ci si sdraiò sopra, coprendosi con un plaid. Infine, si mimetizzò dentro il portavivande. La sera, il nipote confidò alla madre: «Da grande voglio guidare una macchina da corsa e non avere le gambe come lo zio». Alex sostiene che, dei tanti complimenti che ha ricevuto, quello rimane per distacco il più bello. Il complimento di un bambino a un uomo che, per rinascere, ha saputo tornare bambino.
Zanardi suscita meraviglia in chiunque, però non hai mai fatto pena a nessuno. Forse perché il primo a non avere mai provato commiserazione per sé stesso è lui. Ogni volta che ci incontriamo, mi interroga sulla sua famosa Regola dei Cinque Secondi, tanto che oramai la conosco a memoria: «Quando in una gara ti accorgi di avere dato tutto, ma proprio tutto, tieni duro ancora cinque secondi, perché è lì che gli altri non ce la fanno più». Lui non si limita a declamarla. La applica nelle corse, contro avversari che ormai hanno la metà dei suoi anni. E la applica nella vita, da quando è nato e da quando è rinato, dopo che un incidente lo ha tagliato in due e in un letto d’ospedale tedesco è stato costretto a decidere se pensare alla metà di corpo che gli era rimasta o a quella che aveva perduto.
Nessuno più di lui avrebbe diritto di passare il tempo a lamentarsi e a maledire il destino, che per Zanardi ha sempre avuto la forma di una striscia d’asfalto: sua sorella morì in un incidente automobilistico, in un altro Alex lasciò una parte di sé, ed è su una strada in leggera discesa che ieri è andata a sbattere contro un camion quella sua adorabile testa dura. Potrebbe lamentarsi, ma non lo fa. Lo considera uno stupido dispendio di energie. Alla tentazione del vittimismo ha sempre opposto lo scudo dell’autoironia: «Sono così emozionato che mi tremano le gambe» è una delle sue battute preferite e la pronuncia rimanendo serissimo, come i comici veri.
Ogni volta che lo si guarda o lo si sente parlare, non si può fare a meno di pensare che tutti, dentro, ci sentiamo simili a come Zanardi è fuori: derubati di qualcosa e costretti a spingere. Solo che lui, dentro, è come noi purtroppo non ci sentiamo quasi mai: completo, sicuro di sé e animato da una passione implacabile per la vita che lo porta a concentrarsi su tutto ciò che fa, e a goderne, come se lo stesse sempre facendo per la prima volta.
Se chiudo gli occhi, lo rivedo alla maratona di Venezia trascinare per oltre quaranta chilometri un amico malato di Sla e scendere dalla carrozzina a un metro dal traguardo per sospingerlo in avanti, saltellando sui moncherini come se fossero delle molle. Ha imparato a giocare con tutto ciò che avrebbe potuto farlo disperare.
Al David Letterman Show arrivò ad appoggiarsi una tazza di tè sulla protesi per illustrare i vantaggi della sua condizione. E il pubblico americano, che per queste cose va pazzo, gli tributò un’ovazione. Una volta ha detto che non vorrebbe riavere indietro le gambe per paura di non riuscire a essere altrettanto felice, ma io non so se credergli. Quelli come lui coltivano la felicità alla stregua di una vocazione e sanno stare bene con sé stessi in qualunque stato. Alex sarebbe Zanardi anche con le gambe. Senza, è semplicemente più utile a noi, che vorremmo avere il suo stesso sguardo meravigliato sul mondo e la sua stessa ostinata allergia per la parola «limite».
Alex Zanardi, detto Zanna, è illimitato: che non significa presuntuoso, ma solo talmente vasto da avere inglobato tutti i confini della natura umana. Roberto Vecchioni gli ha cucito addosso un verso su misura: «Se non posso correre né camminare, imparerò a volare». E anche a giocare a nascondino con la vita, infondendovi la gioiosa serietà di un bambino. La sua canzone preferita è «Don’t stop me now» dei Queen e in chiusura gliela sparo idealmente a pieno volume nelle orecchie. Non fermarti ora, Alex.
sabato 20 giugno 2020
giovedì 11 giugno 2020
il Signor Eremio e la solitudine
Il signor Eremio viveva solo in casa ormai da dieci anni. L’ultimo anno era stato il più penoso, perché la terribile epidemia che aveva colpito il paese impediva di uscire, e soprattutto i vecchi erano controllati e si cercava in tutti i modi che non avessero contatti con gli altri.
Così un giorno, dopo aver visto un telegiornale dove uno scienziato diceva che la malattia era peggio della peste e un altro che era appena più di un raffreddore, e soprattutto nessuno dei due diceva quando la situazione sarebbe tornata normale, Eremio spense il video e decise che era ora di farla finita.
Salì in soffitta dove c’era una finestra dalla quale si vedeva la strada deserta, gli alberi in fiore, qualche raro passante. Da lì al suolo c’erano dieci metri, si sarebbe buttato e non avrebbe sofferto.
Ma proprio davanti alla finestra c’era un vecchio baule un cofanetto da due soldi che non aveva mai notato. Il signor Eremio lo aprì ed era pieno di fotografie.
Gli venne voglia di dare un’occhiata.
Nella prima foto, un po’ rovinata e giallastra, c’era il gruppo dei suoi compagni di scuola, quelli con cui aveva trascorso tanto tempo studiando ma anche giocando a pallone e andando al fiume. Al suo fianco nell’istantanea c’era un ragazzo con la zazzera bionda e riconobbe Cherubino. Cherubino era stato il suo migliore amico, insieme aveva passato ore di gioia scatenata, e pomeriggi insieme a pescare sul fiume, fare il bagno e sognare il futuro. In quel momento la vecchia lampadina della soffitta vacillò e si spense per un attimo. Al buio, Eremio si trovò in mano un’altra foto.
Era la foto di Cherubino ben vestito il giorno della comunione, e sotto la data della morte, appena a undici anni. Durante un tuffo nel fiume un gorgo lo aveva afferrato e lo aveva trascinato sotto. Per anni e anni Eremio si sentì solo senza il suo migliore amico, andava al fiume a pescare ma non era la stessa cosa.
La luce della soffitta dondolò si fece fioca poi si riaccese. Eremio estrasse dal baule, la foto di una bicicletta. La sua vecchia Bucefalo, una bici gialla e rugginosa ma che andava come una scheggia. E gli tornò in mente Emma. Si erano conosciuti sulla riva del fiume dove lei gli aveva detto “ne prendi?” che è la frase più terribile da dire a un pescatore. Lui si era voltato arrabbiato poi l’aveva vista, tutta una cascata di riccioli neri e la bocca a cuoricino, l’aveva accompagnata a casa sul cannone della bicicletta e da allora erano stati fidanzati e lui non era più solo, stavano per sposarsi.
Un altro oscillare di luce ed ecco la foto delle nozze, al braccio di Eremio c’era la madre. Morì una settimana dopo. Era già malata e soffriva, ma non voleva rinunciare alla cerimonia. Dopo il padre si chiuse in un cupo silenzio e Emma non rise più. Eremio visse anni di solitudine.
La lampadina brillò. Il padre era morto, il lavoro mancava. Lui andò a lavorare in città, nella grande fabbrica, con tanti amici nuovi che lo prendevano in giro, la fabbrica era così grande che bisognava spostarsi in bicicletta e Eremio divenne operaio specializzato, partecipò a tutte e lotte politiche, cortei e manifestazioni, c’era una fotografia con tutti i suoi compagni a fianco, e non si sentiva solo.
Ma la fabbrica chiuse. La lampadina si fece fioca ed eccolo al tavolo di un bar. Era tornato al suo paese. Ma niente era come prima. Quasi tutti gli amici erano morti o malati oppure passavano il tempo a giocare a carte e a guardare quella maledetta televisione. La foto era sfocata. Eremio si sentiva di nuovo molto solo.
La lampada brillò e in mano gli capitò la foto di Rosario il barbiere. Una sera che era molto triste, Eremio lo sentì cantare nella bottega e si incantò.
-Ma che voglia hai di cantare?-chiese
-C’è sempre un motivo per cantare- rispose Rosario- Ho lasciato la mia terra, non ho più moglie ma mi piace il mio lavoro, chiacchiero con tutti, faccio la barba come nessuno al mondo e penso che vivere qui non sia male. Diventarono amici e Eremio non fu più solo, tornarono a pescare al fiume, anche se adesso era tutto inquinato, facevano lunghe passeggiate e qualche domenica andavano anche al mare e Rosario gli parlava della sua isola, del suo mare, delle barche, del vento.
Eremio ora aveva un amico. La lampadina diventò abbagliante come i fari di un’auto. Tornando in macchina a casa Rosario si era scontrato ed era morto. Ora Eremio capì che sarebbe rimasto senza amici per tutto il resto della vita, che era vecchio e la solitudine non lo avrebbe mai abbandonato. Chiuse il baule con un sospiro.
In quel momento suonarono alla porta. Chi poteva essere? Era un uomo che nei lineamenti del volto era uguale a Eremio, ma era pallido e portava un lungo cappotto nero.
-Buongiorno signor Eremio-disse- mi hanno detto che dovevo venire qui-
-Lei chi è?-
-Lei stava per buttarsi dalla finestra, era già pronto, l’avrei preso e portato via-
-Quindi lei sarebbe….
-Esattamente sono la Morte. Su venga e non esiti. Vuole vivere in un mondo dove la malattia infuria e scoppiano le guerre e il clima si corrompe, e dove la aspettano,ore,giorni, mesi di solitudine? Si ricordi: ogni solitudine contiene tutte le solitudini passate. Mi segua-
-Va bene- disse Eremio
La Morte lo afferrò per il braccio e prese anche il baule.
-No quello no- disse Eremio- il bauletto no-
-È la regola, devo portarlo via-
-No lei lo lascerà qui. C’è dentro la mia vita le mie gioie, i miei pianti, le mie solitudini e le risate in compagnia, non voglio recriminare o protestare ma è roba mia, quella è stata la mia storia. Lei può cancellare tutto in un istante, far sparire ogni attimo di felicità, ma non può spegnere la piccola fiammella che è stata la mia vita. Questa fiammella continuerà a ardere, per poco tempo forse, ma illumina una briciola del mio passato, la mia solitudine mi appartiene e questo baule la protegge.
-Va bene- sospirò la Morte- se non vuole buttarsi dalla finestra faccia pure. Io non obbligo nessuno, dico solo che questo è un mondo dove le sarà molto difficile vivere la sua vecchiaia. A presto, signor Eremio-
-Ehm…signora morte. – disse timidamente Eremio.
-Dica-
-Posso? mi vergogno un po’ ma vorrei fare un selfie con lei…sa, lei è un personaggio molto famoso-
La Morte trasecolò.
-Questo non me l’aveva mai chiesto nessuno.
Fecero il selfie. I passi della morte si allontanarono lungo le scale. Naturalmente nel selfie, di fianco a Eremio non si vedeva nessuno. Ma lui tenne la foto sul comodino, per ricordo, fino alla fine.
Così un giorno, dopo aver visto un telegiornale dove uno scienziato diceva che la malattia era peggio della peste e un altro che era appena più di un raffreddore, e soprattutto nessuno dei due diceva quando la situazione sarebbe tornata normale, Eremio spense il video e decise che era ora di farla finita.
Salì in soffitta dove c’era una finestra dalla quale si vedeva la strada deserta, gli alberi in fiore, qualche raro passante. Da lì al suolo c’erano dieci metri, si sarebbe buttato e non avrebbe sofferto.
Ma proprio davanti alla finestra c’era un vecchio baule un cofanetto da due soldi che non aveva mai notato. Il signor Eremio lo aprì ed era pieno di fotografie.
Gli venne voglia di dare un’occhiata.
Nella prima foto, un po’ rovinata e giallastra, c’era il gruppo dei suoi compagni di scuola, quelli con cui aveva trascorso tanto tempo studiando ma anche giocando a pallone e andando al fiume. Al suo fianco nell’istantanea c’era un ragazzo con la zazzera bionda e riconobbe Cherubino. Cherubino era stato il suo migliore amico, insieme aveva passato ore di gioia scatenata, e pomeriggi insieme a pescare sul fiume, fare il bagno e sognare il futuro. In quel momento la vecchia lampadina della soffitta vacillò e si spense per un attimo. Al buio, Eremio si trovò in mano un’altra foto.
Era la foto di Cherubino ben vestito il giorno della comunione, e sotto la data della morte, appena a undici anni. Durante un tuffo nel fiume un gorgo lo aveva afferrato e lo aveva trascinato sotto. Per anni e anni Eremio si sentì solo senza il suo migliore amico, andava al fiume a pescare ma non era la stessa cosa.
La luce della soffitta dondolò si fece fioca poi si riaccese. Eremio estrasse dal baule, la foto di una bicicletta. La sua vecchia Bucefalo, una bici gialla e rugginosa ma che andava come una scheggia. E gli tornò in mente Emma. Si erano conosciuti sulla riva del fiume dove lei gli aveva detto “ne prendi?” che è la frase più terribile da dire a un pescatore. Lui si era voltato arrabbiato poi l’aveva vista, tutta una cascata di riccioli neri e la bocca a cuoricino, l’aveva accompagnata a casa sul cannone della bicicletta e da allora erano stati fidanzati e lui non era più solo, stavano per sposarsi.
Un altro oscillare di luce ed ecco la foto delle nozze, al braccio di Eremio c’era la madre. Morì una settimana dopo. Era già malata e soffriva, ma non voleva rinunciare alla cerimonia. Dopo il padre si chiuse in un cupo silenzio e Emma non rise più. Eremio visse anni di solitudine.
La lampadina brillò. Il padre era morto, il lavoro mancava. Lui andò a lavorare in città, nella grande fabbrica, con tanti amici nuovi che lo prendevano in giro, la fabbrica era così grande che bisognava spostarsi in bicicletta e Eremio divenne operaio specializzato, partecipò a tutte e lotte politiche, cortei e manifestazioni, c’era una fotografia con tutti i suoi compagni a fianco, e non si sentiva solo.
Ma la fabbrica chiuse. La lampadina si fece fioca ed eccolo al tavolo di un bar. Era tornato al suo paese. Ma niente era come prima. Quasi tutti gli amici erano morti o malati oppure passavano il tempo a giocare a carte e a guardare quella maledetta televisione. La foto era sfocata. Eremio si sentiva di nuovo molto solo.
La lampada brillò e in mano gli capitò la foto di Rosario il barbiere. Una sera che era molto triste, Eremio lo sentì cantare nella bottega e si incantò.
-Ma che voglia hai di cantare?-chiese
-C’è sempre un motivo per cantare- rispose Rosario- Ho lasciato la mia terra, non ho più moglie ma mi piace il mio lavoro, chiacchiero con tutti, faccio la barba come nessuno al mondo e penso che vivere qui non sia male. Diventarono amici e Eremio non fu più solo, tornarono a pescare al fiume, anche se adesso era tutto inquinato, facevano lunghe passeggiate e qualche domenica andavano anche al mare e Rosario gli parlava della sua isola, del suo mare, delle barche, del vento.
Eremio ora aveva un amico. La lampadina diventò abbagliante come i fari di un’auto. Tornando in macchina a casa Rosario si era scontrato ed era morto. Ora Eremio capì che sarebbe rimasto senza amici per tutto il resto della vita, che era vecchio e la solitudine non lo avrebbe mai abbandonato. Chiuse il baule con un sospiro.
In quel momento suonarono alla porta. Chi poteva essere? Era un uomo che nei lineamenti del volto era uguale a Eremio, ma era pallido e portava un lungo cappotto nero.
-Buongiorno signor Eremio-disse- mi hanno detto che dovevo venire qui-
-Lei chi è?-
-Lei stava per buttarsi dalla finestra, era già pronto, l’avrei preso e portato via-
-Quindi lei sarebbe….
-Esattamente sono la Morte. Su venga e non esiti. Vuole vivere in un mondo dove la malattia infuria e scoppiano le guerre e il clima si corrompe, e dove la aspettano,ore,giorni, mesi di solitudine? Si ricordi: ogni solitudine contiene tutte le solitudini passate. Mi segua-
-Va bene- disse Eremio
La Morte lo afferrò per il braccio e prese anche il baule.
-No quello no- disse Eremio- il bauletto no-
-È la regola, devo portarlo via-
-No lei lo lascerà qui. C’è dentro la mia vita le mie gioie, i miei pianti, le mie solitudini e le risate in compagnia, non voglio recriminare o protestare ma è roba mia, quella è stata la mia storia. Lei può cancellare tutto in un istante, far sparire ogni attimo di felicità, ma non può spegnere la piccola fiammella che è stata la mia vita. Questa fiammella continuerà a ardere, per poco tempo forse, ma illumina una briciola del mio passato, la mia solitudine mi appartiene e questo baule la protegge.
-Va bene- sospirò la Morte- se non vuole buttarsi dalla finestra faccia pure. Io non obbligo nessuno, dico solo che questo è un mondo dove le sarà molto difficile vivere la sua vecchiaia. A presto, signor Eremio-
-Ehm…signora morte. – disse timidamente Eremio.
-Dica-
-Posso? mi vergogno un po’ ma vorrei fare un selfie con lei…sa, lei è un personaggio molto famoso-
La Morte trasecolò.
-Questo non me l’aveva mai chiesto nessuno.
Fecero il selfie. I passi della morte si allontanarono lungo le scale. Naturalmente nel selfie, di fianco a Eremio non si vedeva nessuno. Ma lui tenne la foto sul comodino, per ricordo, fino alla fine.
Stefano Benni, La Repubblica